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I RE ASHKANI
I. Principio del racconto.
(Ed. Cale. p. 1364).
O antico narrator, ti volgi intanto
Degli Ashkàni all’età. — Deh! che dicea
Sul nobile argomento il libro antico
Là ’ve ricorda le passate istorie
L’uom ch'è facondo? A chi dicea che venne,
Di Sikendèr dopo l’età, l'impero
Dell’ampia terra e de’ monarchi il trono? —
De le ville di Ciàci il borgomastro,
Facondo in raccontar, disse che niuno
D'allora in poi s’ebbe corona e trono
Imperial. Que’ prenci che dal seme
D’Arish venièno, impetilosi e alteri x
Furono e tracotanti. Ognun pel mondo,
In ogni angolo suo, breve di terra
Prendeansi un tratto a governar. La gente,
Poi che in tal guisa fe’ sederli in trono
Lieti e beati, li chiamò del nome.
Di Re de le tribù. Così passarono
Anni dugento, e detto allor tu avresti
Che nel mondo non era alcun sovrano
Veracemente. Questi alcun ricordo
Non fea di quello, e quei non ricordava
<pb n="6.6"/>
Quest’altro mai; così, per alcun tempo,
Riposava la terra. Ecco! ben questa
Fu d’Iskendèr intenzion, che Grecia,
Amena terra e dilettosa, incolume
Al loco suo si rimanesse allora.
Ma d'esti prenci fu primiero a tutti
Ashk, della stirpe di Kobàd; secondo
Fu Shapur valoroso, almo rampollo
Di regal seme. Degli Ashkàni il terzo
Fu Gùderz, Bizhen poi, della famiglia
De’ Kay antichi, Nèrsi poi, poi quello
Ormùzd gagliardo, poi Arish che illustre
Era e valente. Che se lui trapassi,
Viene Ardevàn, prence famoso e saggio,
D'alti consigli e d’anima serena.
Ma ratto che sedea de’ prenci Ashkàni
Behràm sul trono, a chi più merto avea
Tutto un tesoro ei dispensò. Fu detto
Ardevàn il magnanimo, chè forte
L’artiglio ei rintuzzò de’ lupi agresti
Contro agli agnelli già levato. Avea
Di Shiràz, d’Ispahàn l’alto dominio,
Quali ogni saggio chiamar suol frontiere
De’ principi quaggiù. Per suo comando,
Stava Babèk in Istakhàr, di cui
Allo strider dell’arco i serpi agresti
Mandavan di terror sibili acuti.
Ma poichè di quest'albero regale
Fùr divelte le rame e le radici,
Così nessun degli uomini più dotti
Ne racconta la storia, ed io soltanto
Lor nome udii, nè ritrovai ricordo
Entro al Libro dei Re per ch'io cercassi.
<pb n="6.7"/>
II. Sogno di BAbek.
(Ed. Calc. p. 1965-1966).
Ratto che Dàra cadde ucciso in guerra,
Precipitò della sua casa illustre
Il chiaro giorno. Ma giocondo figlio
Ei si avea, di gran senno e battagliero,
Sasàn di nome. Com’ei vide in quella
Guisa trafitto il padre suo, caduta
Come vide la sorte a’ prenci irani,
Ratto ei fuggì da l’esercito greco,
Nè dentro al laccio della rea sventura
Sè medesmo impigliò. Misero e gramo
In India si morì. Ma un piccioletto
Figlio restava di Sasàn, e il padre,
Per questa via, chiamavalo del nome
Di Sasàn parimente, e ciò si fece
Fino alla quarta genitura. Ei vissero
Quali pastori o cammellieri, e trassero
In gravi cure e fatiche e travagli
Del viver loro tutti gli anni; e allora
Che di Babèk giunse a le case un giorno
D'esti figli il minor, scese ne’ campi
E de’ pastori vi scoverse il duce.
Forse che per mercede, egli dicea,
Un uom t'è d’uopo, qual per trista sorte
Passa di qui? — Di que’ pastori il duce”
Lo sventurato a sè raccolse e il tenne
La notte e il giorno tra fatiche e stenti.
Ma poichè laborioso ei si mostrava,
Assai gli piacque, e duce de’ pastori
Si fe' il nuovo pastor fra quegli armenti.
Babèk, il figlio di Rudyàb, dormìa
<pb n="6.8"/>
In una notte, e l'anima serena
Vedea nel sogno che seduto stava
Sovra un fero elefante, in man stringendo
Indica spada, sollevata in alto,
Sasàn pastore. Chi venia di lui
Nella presenza, gli prestava omaggio
Benedicendo. A favellar la lingua
Egli apprestava con parole acconcie
E liberava l’anima dal duolo,
Già oscura e trista. Ma nell'altra notte,
Poi. che sonno si prese, allor che a grave
Pensier congiunta era la mente sua,
Vide in sogno Babèk tre adoratori
Del sacro Fuoco tre fiammelle in pugno
Recarsi ardenti; di Kharràd è l’una,
L’altra di Mihr, d’Azergashàspe l’altra,
Splendide tutte come il sole o Marte.
O la stella de’ vespri. Elle splendeano —
Di Sasàn nel cospetto e in ogni vampa
Legno bruciava d’aloè. Destossi
La mente di Babèk dal grave sonno,
E quell’anima sua piena d’affanno
Egli ebbe e pieno il cor. Quanti eran dotti
In quell’arte de’ sogni e di possanza
Ricchi per tal scienza, ecco! adunàrsi
Di Babèk ne le stanze, ed eran prenci
Di molto senno e consiglieri suoi.
Ma come sciolse le parole sue
Dall’intimo Babèk, narrava a un tratto
I suoi sogni a que’ dotti. Ei duce e sire
Si fea pensoso a ciò che dir dovea,
E chi render dovea risposta acconcia,
Tendea gli orecchi ad ascoltarlo. Alfine
Un de' savi parlò: Sire che altera
La fronte rechi, riguardar t'è d’uopo
A esplicazion di ciò. Quei che in tal guisa
<pb n="6.9"/>
_ 9_
Vedesti in sogno, più d'assai' la fronte
Solleverà di questo sol per grado
Ch’'egli avrà di monarca; e se lui solo
Il sogno falla, sarà il figlio suo |
Quei che del mondo si godrà l'impero.
Ratto che udì queste parole, lieto
Babèk si fe’ nel cor, sì che suoi doni
Fe' a’ sapienti a grado lor conforme,
E comandò che de’ pastori il duce
Dalle sue greggie innanzi a lui venisse,
Di Babèk nel cospetto; ed era quello
Un dì nevoso. Rapido ne venne
Il giovinetto innanzi a lui, con lieve
Guarnello al corpo, tutto pien di fiocchi
Di bianca neve, pien di tema il core;
E Babèk disgombrò d’ogni più estrano
Il loco e ratto da le porte usciro
E consiglieri e servi. Ei fe’ dimandi
E carezze a Sasàn, volle che accanto
A lui sedesse, e poi della sua stirpe,
Del nascer suo l’inchiese. E il pastorello
Avea timor di lui, sì che risposta
Non rese allora. Disse poi: Se grazia
Al povero pastor della sua vita,
O re, tu fai, ben ti dirò le cose
Del nascer mio quante pur sono, tosto
Che prenderai la mia nella tua mano,
Come per patto che quaggiù nel mondo
Male non mi farai, non in secreto,
Non in palese. — Come udì, la lingua
Babèk disciolse e ricordò l’Eterno
Dator di grazie: Offesa a te nessuna
In nulla ti farò, ma ben del core
Tì farò lieto e per onor pregiato.
Così allora a Babèk si volse e disse
Il giovinetto: Di Sasàn, o duce,
<pb n="6.10"/>
— 10
Il figlio mi son io, nepote al prence
Ardeshir che regnò su l’ampia terra,
Quale appella Behmèn memore ancora
La gente nostra. Egli era figlio illustre
D’Isfendiàr gagliardo, unico erede
A re Gushtàspe in terra. — Udì que’ detti
Babèk e lagrimò dagli occhi suoi,
Dai fulgidi occhi suoi, che il chiaro sogno
Vedean la notte. Una veste guerresca
Addur sì fece e un palafreno ancora
Con le insegne di re. Vanne, ei dicea,
Discendi al bagno e restavi costante
Fin che recata là ti sia novella
Una veste. — E, frattanto, sontiùoso
Palagio gli elevò, più assai di grado
Lui sollevando che non era quello
Di duce di pastori; e poi che lieto
Gli fe’ soggiorno in quel palagio, a lui
Giovani schiavi e giovinette ancelle
Destinò quivi e diègli in ogni cosa
Nobile grado e per dovizie molte
D'ogni rancura lo disciolse. Alfine
Gli diè la figlia sua piacente e vaga,
Di luì regnante nobile corona.
III. Nascita di Ardeshîr BabekAn.
(Ed. Calc. p. 1366-1369).
Per la donna leggiadra allor ché nove
Lune passar, venne da lei qual fulgido
Sole un infante, e simile era al nobile
Ardeshir prence, infante che crescea
Ed era bello e dolce al core. Il padre
Gli fe” nome Ardeshìr, chè veramente
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— 11 -
Beato egli era nell’aspetto suo,
E in grembo l'allevò con gran desio
Fin che lunga stagion per lui trascorse.
Ed or, la gente di gran senno lui
Babekàn Ardeshir chiamar solea
Più veramente, e quei della sua casa
Quante erano virtù sì gli apprendeano
Con molto studio, sì che la natura
Vincean le sue virtù. Ma per saggezza,
Per vago aspetto e nobil viso, tale
Era davver, che detto avresti ancora
Prender luce da lui quest'almo cielo.
Del senno e del saper del garzoncello
Novella giunse ad Ardevàn. Fu detto
Che leon fero in giorno di battaglie
Era il garzon, che in giorno di conviti
A la stella de’ vespri ei somigliava,
Sì che ratto un'epistola scrivea
Prence Ardevàn all’inclito gagliardo,
Babèk valente. O saggio, egli scrivea,
Di nobili consigli, o giusto e puro,
Guida a noi tutti e parlator facondo,
Udii che cavalier memore e accorto
E di nobil favella è il figlio tuo,
Prence Ardeshìir. Come letto t’avrai
Questo mio foglio, manda il giovinetto
All’istante appo noi lieto e beato.
D'ogni cosa ch'è all’uopo, io veramente
Non bisognoso il renderò, chè grande
Il farò tra gli eroi. Quand'egli accanto
A’ nostri figli abiterà, noi certo
Non direm ch’ei non è di nostra stirpe.
L'epistola regal ratto che lesse
Babéèk illustre, lagrime di duolo
Giù per le gote sue sparse ben molte,
E comandò che innanzi a lui venisse
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_ 12
Il regio scriba e con lo scriba ancora
Il giovane Ardeshìr, tenero e bello.
Leggi, gli disse, d’Ardevàn l’epistola
E su vi pensa con alma serena.
Ecco! al mio prence un’epistola anch'io
Scriverò tosto e invierògli tale
Di cor benigno e gli dirò: « Tu vedi
Ch’io qui ti mando il core e gli occhi miei,
L’animoso garzon, caro e diletto.
Consigli anche gli diei, ratto ch’ei venga
A l’eccelsa tua reggia, e tu, signore,
Ciò che de’ prenci è del costume, a lui
Farai cortese, chè non vuolsi mai
Che spiri sovra lui vento importuno ».
. Ratto qual nembo, de’ tesori suoi
Schiuse Babèk le porte e il giovinetto
D'ogni cosa più eletta e preziosa
Rese beato, d’auree briglie assai,
Di spade e clave (oh no! pel figlio suo
Grave non gli era di donar sue cose),
Di drappi ancor, di fulgide monete,
Di destrieri e di paggi e di broccati
Tessuti in Cina e intesti d’oro, e degni
Di re dei re. Coteste cose innanzi
Recava al garzoncello il tesoriero,
E il garzoncello già si fea soggetto
Di principe Ardevàn. Ma ricchi doni
Anche mandava, ed eran molti, al prence
Con Ardeshir il vecchio duce, nummi
Ed agalloco e muschio. Il giovinetto,
D'inclite orme quaggiù, dalla presenza
Uscia dell’avo e a Rey scendea lontana,
Di principe Ardevàn nella dimora.
Quando vicino al regio ostello ei giunse,
Detto fu al prence di costui, che accesso
A dimandar venìa. Con molto amore
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— 13 —
Il giovinetto a sè chiamava innanzi
Sire Ardevàn e fea parole assai
Di Babèk valoroso. Accanto al trono
Il fe’ seder, pe’ vichi circostanti
Un loco gli assegnò, mandava poi
Ogni sorta di cibi e di tappeti
E di splendide vesti. Il giovinetto,
Co’ suoi compagni di gran nome, al loco
Che Ardevàn gli assegnò, così discese.
Ma nell’ora che il sol ponea suo seggio
Sovra il trono del ciel, quando la terra
Bianchezza avea dal sol qual è di greca
Fanciulla il viso, convocò i valletti
Ardeshir a sè innanzi e i doni suoi
Quanti eran d’uopo, ad Ardevàn monarca
Mandò, quali Babèk duce inviava.
Ardevàn li mirò; grati gli vennero
All’alma e al core, e di giocondo frutto
Furon cagione al garzoncel, chè il prence
Qual figlio suo sel tenne seco e mai,
Per cure ch’egli avesse, in alcun tempo
Nol trascurò. Fra le sonanti caccie,
In ber del vino o banchettando, mai
Senza quel caro giovinetto suo
Non era il re. Ma seco egli il tenea ‘
Quale un congiunto suo, nè tra’ suoi figli
Diverso grado gli assegnava ancora.
E avvenne poi che un dì genti di corte
Co' figliuoli del re, di vasta caccia
In loco ameno, si sperdeano. Andava
Con Ardevàn anche Ardeshìr garzone,
Ch'era diletto al cor del re sovrano
Il giovinetto. Allor, quattro si avea
Prence Ardevàn giovani figli, e d’essi
Era ciascun quale un monarca. Lungi,
Per la campagna un ònagro fu visto,
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— 14 —
E da quell'ampio stuol fiero tumulto
Subitamente si levò. Sospinsero
Veloci in corsa tutti lor destrieri,
E la polve e il sudor quivi d'un tratto
Si mescolàr. Corse dinanzi a tutti
Ardeshir giovinetto e come appena
Ei fu vicino, sovra l'arco pose
Una saetta e ne la coscia un maschio
Onagro ne colpì, sì che passavano
De la belva le carni e la ferrata
Punta e le penne di quel dardo. Venne
All’istante Ardevàn, del giovinetto
Ammirò il tratto poderoso e disse:
Di colui che atterrò con la sua freccia
Cotesto onàgro, a la possente mano
Pari l’alma deh! sia! — Così rispose
Al suo prence Ardeshir: Cotesto onàgro
Io co' dardi atterrai. — Deh! che soltanto
Io l’atterrai, disse un regal fanciullo,
Ed or ne cerco la compagna ancora |!
Ardeshìr gli rispose: È vasto il campo,
Ed ònagri vi son, dardi pur anco.
In questa guisa atterrane tu pure
Un altro, ma il mentir colpa è ben grave
Tra valorosi. — Pien di sdegno allora
Fu a que’ detti Ardevàn. Contro al garzone
Fiero un urlo cacciò, dissegli iroso:
Colpa questa fu mia, chè il nutricarti
Fu mia legge e costume. Oh! perchè mai
Era d'uopo recarti a’ miei conviti,
Alle mie caccie, con lo stuol de’ prodi,
Perchè poi soperchiar così volessi
I figli miei, costume di superbia
E d’alterigia ti pigliando? Vanne,
E custodisci gli arabi destrieri
Di nostra casa e scegliti l’ albergo
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— 15 —
Vicino a quelli. Accanto a' beveraggi
De’ palafreni tu sii prence e sire,
In tutte l’opre a chi più vuoi compagno.
Pien di lagrime agli occhi, andava allora
Ardeshìr giovinetto, ai beveraggi
Degli aràbi destrier primo custode,
E tosto all’avo suo scriveva un foglio,
Pieno d’affanno il cor, piena la mente
Di pensieri in tumulto. Ecco! dicea,
Che mai ne incolse da Ardevàn! Gli sia
Corpo il dolore, alma gli sia l'angoscia! —
Indi narrò le cose intravvenute
Insieme tutte, e perchè mai sdegnato
Fosse prence Ardevàn. Come quel foglio
Giunse a Babèk, non disvelò ad alcuno
L’alto secreto, ma il cor suo ne andava
Pieno d’affanno e di dolor. Monete
Ei prese alquante da’ tesori suoi,
E diecimila al giovinetto suo .
Ne mandò ratto, sospingendo in via
Un dromedario e un cavalier. Ma prima
Comando ei fe’ che sì venisse a lui
Tale, scrittor di fogli, e sì gl'impose
Per Ardeshìr questa epistola acconcia:
Inesperto garzon di poco senno,
Poi che ne andavi a dilettosa caccia
Con Ardevàn, perchè se’ corso innanzi
A’ figli suoi? Tu servo e non congiunto
Veramente gli sei. Ned ei ti fece
Atto nemico, ei no, per tristo core,
Ma tu il facesti per la tua stoltizia.
Or tu soltanto il suo desìo ricerca
E il piacer suo, nè volgere la fronte
Dal suo comando mai. Copia t’invio
Di monete frattanto e in questo foglio
Pongo per te li miei consigli. Ratto
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— 16 —
Che usato avrai d’este monete, chiedine,
Fin che trapassi questa sorte avversa.
Il dromedario rapido nel corso,
Con un vegliardo di gran cose esperto,
Giunse veloce appo Ardeshir. Nell’alma
Si fe’ lieto il garzon tosto che il foglio
Lesse dell’avo, e l’inesperto core
All’astuzia si volse ed agl’inganni
Subitamente. Accanto a’ palafreni
Un ostello. ei scegliea, nè di lui degno
Faceasi loco ad abitar, chè stese
Tappeti al suolo d'ogni foggia e vesti
E cibi vi recò d'ogni maniera,
Ed era il banchettar la notte e il giorno
Sola sua cura, ed i compagni suoi
Eran cantori e colme tazze e vino.
IV. Fuga di Ardeshîr con Gulnàra.
(Ed. Calc. p. 1369-1372).
Un castello si avea nobile ed alto
Prence Ardevàm, e dentro a quel castello
Era una schiava di gran sangue. Nome
Della vaga fanciulla era Gulnàra,
Alta beltà, di gemme e di colori
E di fragranze adorna. Ella era quale
Di re Ardevàn il consigliero e fida
Custode ancor de’ suoi tesori. Al prence
Cara è costei più assai de l’alma, ed*ei
Sol nel vederla si rallegra e allieta.
E avvenne un dì che ad un terrazzo ascese
La giovinetta. Quel suo cor fu lieto
Del leggiadro garzon, sì ch’ella tosto
Diedesi a contemplar quel sorridente
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— 17
D'Ardeshir labbro, e il giovinetto eroe.
Nel core di colei, bella qual luna,
Ratto un loco trovò. Stette la bella
Ad aspettar fin che oscurossi il giorno,
Fin che vicino fu alla notte il giorno,
Oscura e tetra, e de la torre ai merli
Avvinse un laccio suo, tanti vi fece
Nodi robusti e le mani v’appose
Tenacemente. Giù discese allora
Con molto ardir da le superne mura,
Iddio chiamando largitor di grazie
Ai mortali quaggiù. Com'ella venne
Con fiero incesso ad Ardeshir, di gemme,
D'agalloco e di muschio infusa e piena@
Di fragranze soavi, il capo alquanto
Di quel dormiente sollevò dal suo
Guanciale di broccati e stretto al seno
Il rinserrò poi che fu desto. A lei
Sì vaga e bella riguardò il fanciullo,
Ei quel volto mirò, que’ suoi capegli
E tutto l’ornamento, e le fragranze
Senti soavi. Oh! donde mai, le disse,
Ti se’ levata? già il mio cor che pieno
E sì d’affanno, tu consoli, o bella !
Ancella e schiava qui son io, rispose,
Pieni d'intenso amor l’anima e il core
Sento per te. Son io la donna cara
Del regnante Ardevàn, de’ suoi tesori
Custode ancora, ed ei per me s’allegra
Ed ha l’alma serena. Or, se m’accogli,
La tua ancella son io, ch’io su la terra
Vivo soltanto pel tuo dolce aspetto.
Che se tu vuoi, verrò con teco e luce
Darò a’ tuoi giorni che son tristi e foschi.
Come non lunga, dopo ciò, stagione
In ciel si volse, rapida sventura
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Incolse al protettor del giovinetto.
Quello sì esperto e vigile ed accorto
Babèk moriva, ad altri abbandonando
Quest’antica dimora. Allor che annunzio
Ne venne appo Ardevàn, pieno di doglia
Ei fu davvero e si fe' trista e oscura
L'anima sua. Ma tosto ogni gagliardo
Ambì di Persia le contrade, e il sire
Le diè al maggior de’ figli suoi. Fe' cenno
D'apprestar fuori timpani regali
E si traesse dalla reggia ai campi
Lo stuol de' prodi. Allor, subitamente,
Si fe' oscura la terra e trista al core
D'Ardeshir per colui che sì 'l protesse,
Di splendid’alma saggio vecchio. Il core
Ratto ei togliea da l’esercito accolto
D’Ardevàn prence e dopo il tristo annunzio
Nuovo prese consiglio. Oh! veramente
Per cruccio inverso a lui pieno d'un'ira
Era quel core, ed ei per ogni parte
Cercavasi la via dì pronta fuga.
E avvenne poi che là, nella sua reggia,
Prence Ardevàn raccolse un'assemblea
D'astrologi d’assai, d'alma serena,
A investigar la propria stella e quale
La via del viver suo, cercando ancora
Di chi mai protettrice, in suo mutarsi,
D'allora in poi la sorte fosse. Il prence
Sì gli mandò presso Gulnàra, quivi
Gli astri del cielo a contemplar. Tre giorni
Passàr di tempo in tale impresa, e l’astro
Del nascere del prence ivi con cura
Fu guardato per lor. Ma la fanciulla,
De’ tesori custode, allor che intese
Di quei le voci e il favellar dell’astro
Ascendente del re, di lor secreto,
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— 19 —
Per quei tre giorni c fin che tre vigilie
Furon trascorse della notte, intenta
Fu agl’indovini, e piena al cor d'un alto
Desio, col labbro sospiroso e mesto, -
Teneasi a mente lor parole. Al quarto
Giorno che venne, andàr que’ sapienti
D'alma serena a sciogliere l'arcano,
Appo Ardevan; movean con quelle ancora
Astronomiche tavole nel grembo
Al lor signor, togliendosi alla torre
Della fanciulla, e dissero il secreto
Del ciel superno e ognun fe’ sue parole
Del come e del perchè, del quanto ancora.
D'oggi in avanti, elli diceano, a tempo
Che non è lungo, il cor del nostro sire
Per cosa nuova si dorrà. Dal prence
Fuggirà un servo di regal prosapia
E d'inclito valor. Principe illustre
Ei sarà poi, signor dell’ampia terra
Con sorte amica e disiosi frutti.
A quegli accenti corrucciossi forte
Dell'inclito signor, che avea propizia
Fortuna, il cor. Ma quando tenebroso
Color di pece de la terra assunse
La superficie, -appo Ardeshir ne venne
La giovinetta. ll cor di quel fanciullo
Come un mar si agitava; un dì soltanto
D'Ardevàn non posava ei dal pensiero,
E la donzella ciò che detto i saggi
Avean d'alma serena al glorioso
Prence Ardevàn, ridisse allora, ed ei
Paziente si fece e manso e dolce
Ratto che i detti di Gulnàra intese.
Ma poi -del garzoncello a quegli accenti
Il core s'infiammò, di fuga poi
Ricercossi una via, sì che si volse
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- 20 —
A la fanciulla e disse: Oh! se d’Irania
Andrò alla terra, se da Rey discendere
Alle città potrò de’ valorosi,
Pensa tu se con me per l’aspra via
Incamminar ti brami, o se qui accanto
Al tuo signor restar ti vuoi. Se vieni,
Se meco vieni, ricca tu sarai,
Sarai corona di quest’ampia terra.
Io ti son schiava, ella rispose, e mai,
Fin che viva sarò, sarò divisa
Da te quaggiù. — Con sospirose labbra
Ella così dicea, lagrime ardenti
Giù versando dagli occhi, e il giovinetto,.
Prence Ardeshìr, a lei sì vaga e bella
Anche dicea: Dimani, e non è scampo,
Andar si dee. — Tornava a le sue stanze
La giovinetta e l’alma e la persona
A estremo rischio per amor ponea.
Ratto che al sol si fe’ splendente e vaga
La superficie de la terra e cadde
La notte ombrosa dentro a’ lacci apposti,
Schiuse le porte de’ tesori suoi
La giovinetta e incominciò diverse
Gemme a cercarsi, gemme imperiali,
E rubini e monete in quanto a lei
Veniano all’uopo. Alle sue stanze allora
Ella tornò recandosi fra mano
L’inclite gemme nel suo ricco albergo,
E là restò fin che dal monte a lei
Scese la notte e immerso era nel sonno:
Ardevàn, e deserto era quel loco.
Rapida allora come freccia uscia
Dal suo castello, appo Ardeshir le sue
Gemme recando, e là vedea quel forte,
Avido di poter, starsi con una
Tazza alla mano. Gli dormiano attorno,
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— 21 —
Ebbri dal vino, de’ cavalli suoi
Tutti i custodi, ma trascelti quivi
Erano di gran prezzo, pascolanti.
A’ beveraggi intorno e con le selle
Al dorso avvinte, due destrieri. Allora
Che il giovinetto di sua gloria amante
Gulnàra in volto rimirò, le gemme
Ratto ch’ei vide rilucenti e quelle
Monete accolte, giù depose il nappo
Subitamente e agli arabi destrieri
Le briglie al capo rassettò. Vestia
Una corazza, e con un brando in pugno
Intinto di velen balzò in arcioni.
Montò su l’altro palafreno allora
La giovinetta che le gote avea
Di luna, ed ambo a via partir gittàrsi
D'un moto sol. Dal solitario ostello
Volsero il viso di Persia alla terra.
Andavan lieti in eor, la via cercando.
Avvenìa che Ardevàn d'anima lieta
Non era mai, senza la bella sua
Gulnàra, e notte e giorno. Ei da’ broccati
Del suo giaciglio la cervice mai
Non sollevava o gli omeri al mattino
Se in pria, qual lieto augurio, ei non vedea
Gulnàra in viso. Come giunse ancora
Tempo in quel dì per lui di su levarsi,
Tempo in broccati di adornar l'altezza
Del regal seggio, non entrò da lui
Al suo guancial la giovinetta, ed ei
S'adirò grave e per quell’atto avverso
Ebbe cruccio e dolor. Già su le porte.
Stavano in piè dell’esercito i prodi,
Già s'adornava il regal trono e il serto
E l'ostello del re, quando levossi
Dal limitare il maggiordomo e venne
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All’inclito signor. Stanno a le porte, .
Disse, i principi omai, quanti son duci
Del regno tuo preposti a le contrade.
V. Persecuzione di Ardevàn.
(Ed. Calc. p. 1372-1375).
A’ suoi valletti disse il re: Deh! come
Il suo costume e la sua legge assidua
Non osserva Gulnàra ? Ella non viene
Al mio guanciale. Forsechè ne] core
Cruccio per me le sta? — Ma degli scribi
Entrava il duce in quell’istante. Fi disse:
Ieri di notte, ad ora inconsieta,
Se n’andava Ardeshir. Dai beveraggi
Il bianco e il bruno palafren si tolse,
Quali eran già del nostro inclito sire
I destrieri prescelti. Anche fuggia
Del nostro prence la donzella cara;
Colei, che il suo tesor gli custodia,
Con Ardeshir andò. — Dell’uom rissoso
Balzò il core nel petto. Egli salia
Un biondo palafren, seco recava
Molti assai cavalieri incliti in armi;
Detto avrestù ch'egli mandava attorno
Fiamme di fuoco. In su la via scoverse
Un nobile castello, e v’eran dentro
Uomini assai e quadrupedì molti,
Ed ei richiese: All’alba, al primo sole,
Suon di zampe ferrate di cavalli
Forse che udiva alcun di voi? Passarono
Per questo calle due, rapidi e sciolti
In lor cammino, e bianco palafreno
L’uno sì avea, bruno quell’altro. — Disse
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Un di tal gente: Oh sì! passaron due
Su due destrieri e s'internàr pel campo;
Ma dietro ai cavalieri una leggiadra
Capra de’ boschi qual destrier correa,
Sollevando la polve. — Al consigliero
Disse ratto Ardevàn: Deh! perchè mai
Correndo va l’ignota capra? — Questa,
Gli rispondea, di lui che va fuggendo,
È regal maestà, questa gli è l'ala,
Regal possanza con amica stella
Per ottener. Che se il raggiunge e tocca
Nella sua corsa la selvaggia capra,
Davver! che lunga qui per noi diventa
Cotesta cura! — Ma discese allora
A quel loco Ardevàn, cibo vi prese
E riposò, poi ne parti veloce.
Così, dietro Ardeshir, ei s'affrettavano,
E Ardevàn precedea col suo destriero.
E il giovinetto con la sua fanciulla
Dal correr suo, qual turbo impetùoso,
Un solo istante non posò. — Davvero!
Che qual propizio ha questo ciel superno,
Offesa o danno da’ nemici suoi
Toccar non può! — Ma poi che si stancava
Ardeshìr animoso al correr lungo,
Vide un laghetto da un'altura e tosto,
Ei giovinetto in camminar veloce,
Disse a Gulnàra: A diuturno stento
Congiunti qui siam noi. D’uopo è discendere
A quella fonte poi che sfatti sono
E palafreno e cavalier. Restiamci
A questo loco e di quell’acque chiare
Una stilla beviam. La nostra via
Seguiterem dopo la sosta breve.
Come giunsero all’acque i giovinetti
Ambo a le gote come sole accesi,
<pb n="6.24"/>
Primo Ardeshir nell'atto che discendere
Volea di sella, due garzoni accanto
Al laghetto scopri. Deh! che t’è d’uopo,
Diceano ad alte voci i garzoncelli,
Briglie e staffe adoprar! Libero uscisti
Dall’alito del drago e da sue fauci,
Nè bever di quest’acque ora ti giova.
No, -no, d’uopo non è che tu discenda
A ber dell'acque; chè dovresti allora
La tua persona d’un etero addio
Salutar. — Come udì queste parole
Prence Ardeshir da chi lo consigliava,
Ecco! a Gulnàra egli dicea, tu questi
Detti riponi in cor! — Così le staffe
Novellamente fùr de’ piè gravate,
Fùr disciolte le redini, e quel prode
In collo si recò l’asta lucente.
Ma dietro a lui qual rapida bufera
Sire Ardevàn, con alma fosca e rea,
Venia per simil guisa. Allor che scorsa
Fu del giorno metà, quando scendea
Per la volta del ciel la bella face
Che dà lume alla terra, adorna ei vide
Una città, donde gran gente accolta
Venne correndo intorno a lui. Si volse
Ai sacerdoti il nobile signore
E così disse: Quando mai passarono
Due cavalieri? — Glì rispose allora
De’ sacerdoti il duce: Inclito sire
Di bella sorte e di consiglio eletto,
Nell'ora che si fea pallido in cielo
Quest’almo sol, quando stendea l'azzurro
Suo vel la notte, passaron veloci
Per la nostra città due cavalieri,
Pieni di polve ed aridi a le fauci