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IL RE KHUSREV
I. Sogno di Gaderz.
(Ea. Calo. p. 507-512).
Gùderz, ne' sonni suoi, vide una notte
Nuvola sorvenir da suol d’Irania,
Carca di pioggia. Su la nube acquosa
Era seduto e a Gùderz favellava
L'angiol Seròsh: Apri l'orecchio. Allora
Che liberarti da presente angustia
Vuoi tu, dal sire di Turania infesto
Qual fero drago, nel turanio suolo
Sappi che nuovo è un re. Khusrèv signore
È il nome suo; regnante, che discende
Da Siyavìsh, egli è, savio e progenie
Di gloriosi eroi, con fronte al cielo
Alto levata. Di Kobàd monarca
Egli è del seme, e per la madre sua
Egli ha da Tur l’origin prima. Allora
Che l’orma sua gioconda e benedetta
Verrà segnata in suol d'Irania, il cielo
In ciò ch’ei chiede, gli darà risposta,
<pb n="3.8"/>
E l’armi ei cingerà per ta vendetta
Del padre suo, di Tu ‘là. terra antica
Scompiglierà. Così tutte saranno
L’acque del mare in turbinìo sconvolte
Dalla sua man, chè vendetta in pigliarsi
D'Afrasyàb ei non fia inerte e lento.
Chiuso ei terrassi nel guerresco arnese
Per tutti gli anni, e notte e giorno in sella
Starà per sue battaglie. Oh! ma dei prodi,
Ma de' forti d'Irania indizio certo
Di lui nessuno avrà, se Ghev ne togli,
Il figlio tuo. Cotesto fine ha l’opra
Del cielo arcana, e per giustizia il cielo
Spande su re Khusrèv tutto l’amore.
Come fu desto dal profondo sonno
Gùderz, innanzi a Dio sen venne a rendere
Preghiere e laudi. Fino al suol la barba
Canuta umiliò, mentre di speme
Era pieno il cor suo per il novello
Prence del mondo. E allor che dietro al colle
Questo sol si mostrò saliente in alto
Come fulgida lampa, il vecchio duce
Sul trono suo di levigato avorio
Sedette e fe' apprestar nell’inclit'aula
Di quercia un seggio. Egli invitò, col core
Pensoso, il figlio suo, parole seco
Ei fe’ del sogno arcano. Oh! fortunate,
Diss’egli, l’orme tue, li giorni tuoi,
E fortunata la tua stella, quale
Dà luce al mondo! Allor che tu nascesti
Dalla tua madre benedetta, intorno
Tutta la terra piena andò di molte
Benedizioni. E sappi tu frattanto
Che in questa notte, per voler di Dio,
A me il suo volto disvelò nel sonno
Seròsh, angiol beato. Egli sedea
<pb n="3.9"/>
_ 9_
Sopra una nube gravida di piogge
E di nembi, e dal duolo in ogni dove
Purificava questa terra. Gli occhi
In me rivolse e disse: « Oh! perchè mai
Tanto affanno, e perchè d’odio la gente
E piena? e perchè mai lagrime agli occhi
Anche non sono?... Egli è che senza mente
E senza maestà qui siede un prence,
Quale dei prischi re norma non serba.
Ma quando re Khusrèv da la turania
Terra verrà, tutto il dolor con l'odio
Ricaccerà fra’ suoi nemici. Niuno,
Niun però de’ gagliardi, in guerra forti,
Qui menarlo potrà, fuor che l'illustre
Figlio di Gùderz, Ghev ». Grazia sì eletta
Così adunque ti fe’ quest'alto cielo,
Perchè per la tua man sciolga ogni affanno,
Sciolga ogni duolo e sciolga i ceppi. Assai
Fatica è qui davver, ma gloria e molta
Ricchezza al faticar son quì congiunte,
Sì che più in alto salirà il tuo nome
Dopo il tuo cruccio. Fra le schiere in guerra
Gloria cercasti un dì, ma nome cterno
Or sì che ti avrai tu! Fin che nel mondo
Saran viventi e di racconti verbo,
Mai non sarà che invecchi il nome tuo
Inclito e grande. Al mondo, ecco, novello
Prence tu adduci, e della fè la pianta
Così rechi a fruttar. Se qui, alla terra,
Eternamente non rimani, vale
Più della vita breve illustre un nome.
Per la tua man veracemente i duri
Ceppi del duol quest’alto ciel discioglie!
E Ghev rispose: O padre mio, tuo servo
Io qui mi son, farò quale è tuo cenno,
Fin che vivo sarò. Io mi sobbarco
<pb n="3.10"/>
— 10 —
A ciò, se avverrà mai che ciò si compia,
O mio maestro, nel tuo fausto nome.
Così ne venne alle sue case e tutti’
Gli arnesi del viaggio egli apprestavasi,
Meravigliando assai di quell’arcano
Sogno del padre. Ma l’eletta figlia
Di Rùstem battaglier, Banù, signora
D’ogni donna regale, inclita sposa
Era di Ghev. Ella ne venne allora
E corse accanto a lui. Prence, ella disse,
Che ami tua gloria, bene udii che tosto
In Turania andrai tu, Khusrèv cercando
E da presso e da lungi. Ove licenza
Venga dal mio signor, con lieto core
A Rùstem io ne andrò. Desio mi venne
Di quel volto, o signor; l’anima mia
Del non vederlo è dolorosa. Addio,
Gran vassallo del regno! Aita ai forti
Esser tu possa in ogni tempo! — Al cenno
Di quel duce d’eroi, rapida allora
S'incamminò al Sistàn Banù leggiadra.
Tosto che si mostrò fulgido il sole
E fu la terra splendida qual rosa
Ch'è di fiengreco, stretta la cintura
A’fianchi intorno e sotto un palafreno
Dai piè veloci, al padre suo ne venne
Ghev animoso. Oh! chi ti fia compagno,
Guderz dicea, chi, nel lontano calle,
Viandante con te? — Ghev gli rispose:
O vassallo del regno, o forte, o illustre,
D'alma gioconda, un palafreno e un laccio
Mi son compagni, e bastanmi cotesti!
Chè non convien su le frontiere alcuno
Menar con sè. Quand’io recassi alcuno,
Alcun verrebbe a dimandarmi, e assalto
A me poscia verria. Col laccio al culmo
<pb n="3.11"/>
Dell’ardua sella, col destrier veloce,
Con la spada e la veste che tessea
Indica spola, il monte e la pianura
Son per me lochi eguali. E forse ancora
Alcuna guida mi verrà. Ma intanto
Passar per le città bello non fia,
Chè conosciuto i’ vi sarei, la pena
Ne toccherei ben tosto. Or, per vincente
Sorte di te, del regno gran vassallo,
Lieto del core e d'anima serena
Andrò per te. Ma tu nel grembo tuo
Bizhen alleva piccioletto, guardalo
Dall'avverso destin. De le battaglie
L’ordin gli apprendi, chè soltanto ei crebbe
Per il convito e per la pugna. In quella
Sua fanciullesca età segni vid’io
Di guerresco valor; però n’ebb’io
Compiacimento grande... Addio frattanto,
O padre mio; m'abbi tu in mente e libero
Da dolor che hai per me, rendi il tuo spirto.
Io non so, rivederti un’altra volta
Se concesso mi fia. Che sappiam noi
De’ secreti di Dio? Ma tu, nell’ora
Che adorando l’Eterno ambe le gote
Bagni di pianto, una calda preghiera
Solleva a Dio per me. Grande sugli altri
Grandi è colui; gli è servo ogni monarca,
Ed ei fe’ il tempo e la terra e lo spazio,
Creò possenti e ‘miseri. S'appunta
In lui la speme, e da lui vien sgomento,
Da lui, dell’aria e del fiammante fuoco,
Della terra e dell'acque ampio signore.
Eì mi sia protettor, guida ei mi sia
Là, fino al piè dell’inclito sovrano!
A quel comando ei s’apprestava e uscia,
Restava il padre pien di doglia al core,
<pb n="3.12"/>
— 12 —
Lagrimose le guancie. E il padre è vecchio,
E il giovinetto è ardimentoso, come
Leon gagliardo a la battaglia accinto,
Nè sapea quei se di vederlo ancora
Gli era concesso, ed al partir di lui
Il paterno suo cor turbossi forte.
Quei che nel mondo faticando assai
Per lor grandezza fùr graditi a Dio,
La sepoltura ebber solo giaciglio
Al fin de’ giorni. Atro velen dal mondo
Tocchiam soltanto noi, nè v'è alcun balsamo.
Ma tu, poi che ben sai che lunga in terra
Dimora non farai, perchè sul capo
Di procace desio ti poni il serto?
Incolume sotterra il tuo desio
Tu recherai, trarrai giù nell’avello
Il suo principio. Ma poichè son molti
Godimenti quaggiù, perchè dovrìa
Frutto ad altri toccar di tua fatica?
Ti crucci, e del tuo cruccio altri sì gode
Agevolmente, e non fia mai che poscia
Alla tua tomba, alla tua bara, ei volga
Lo sguardo amico. Eppur, quella sua gioia
Passerà tosto, e quell'altero capo
Calpesterà la morte... A’ giorni tuoi
Che volan ratto, volgi il pensier tuo,
E Dio t'appresta a venerar; t’accingi
Ad opre elette, non far sì che alcuno
Per te si dolga. Della tua salvezza
Questa è la dritta via. Ma incauto il core
Non porre al mondo ch'è fugace; eterno
Per te il mondo non è. Per quanto duri
Il tuo soggiorno, dovrai tu da questa
Terra partir, nè v'ha ritorno mai
Dopo il lungo partir. Tu intanto, o saggio,
O di vigile cor, lascia ogni dubbio,
<pb n="3.13"/>
— 13
Togli dal fango il piè. Pensa che Iddio
È tuo sostentator, tu servo a lui,
Tu sua fattura. E allor che la cervice
Oppressa chinerai da un gran pensiero,
Dell'essere di Dio alcun dimando
Non avventar, non far giudizio. Il cibo,
Il sonno e l’abitar già non è bello
Aver con l'uom che non confessa Iddio
Esistere nel ciel. Stolta la mente
E cieco il cuore di costui, nè il saggio
Fra gli umani l’annovera. Son chiari
Segni in terra ed in mar che vive Iddio;
Non ti gittar dentro una fossa cupa
Dopo tanta dottrina! Egli è possente
E sapiente e reggitor del mondo,
Di nostra mente e di nostr'alme ancora
Conformator. Fe' terra e spazio e tempo,
Elefanti gagliardi e orme di bruchi.
È allor che nel suo cor così dicea
Di Turania il signor: « Su gli altri tutti
Per mia grandezza leverò la fronte »,
Uccise poscia il giovinetto sire,
Figlio di re, la sua fortuna avversa
Testo il raggiunse, chè di quel dai lombi
Nuovo rampollo suscitava Iddio,
Già vicino a fruttar. Fe’ contro a lui
Ciò che far gli era d’uopo, a lui togliendo
Cara vita e la regal dimora
Atterrandone tutta. Oh sì!, degli astri,
Della luna e del sol primo signore
È Iddio; vittoria e potestà di prenci
lui procede. All’essere universo
è signore, e giustizia puranco,
Grandezza ed umil stato de’ mortali
vengono da lui. Dator di grazie,
Operator di cose eccelse, agli uomini
<pb n="3.14"/>
— 14 —
Dator del cibo consueto, immune
D'ogni difetto, sire egli è del mondo,
Signor del sole, dell’astro de’ vespri,
Del ciel rotante. Non è via dischiusa
Fuor che per cenno suo, per suo precetto,
E di sua sapienza alcuna parte
Alcun non ha, non ha la luna o il sole.
Per comando di lui cinto dell'armi,
Come leon di fermo core, andava
Ghev animoso. Egli partia soletto,
Nè alcun seco menò, la sua persona
Avvezza a le delizie a Dio fidando.
Rapido corse fin che le frontiere
Di Turania toccò; chiunque ei vide
Da solo nella via, sermon turanio
Adoprando, richiese, e indizio alcuno
Di re Khusrèv cercò da lui. Ma quando,
« Non ho di questo re novella certa »,
Quei rispondea, subitamente il corpo
Vuoto dell’alma Ghev gli fea. Nei torti
Nodi del laccio l'impigliando, lungi
Poca terra di sopra gli gittava,
Perchè nessun l'arcano suo sapesse
Nè udisse alcun la voce sua. Ma tale
Ei menò seco un dì fra quella gente,
Che gli fu guida. Lunga via percorse
Con lui, nè gli apri mai per alcun tempo
L'’arcano suo. Dissegli un giorno poi:
Tra molte cose d’una sola inchiederti
In segreto vogl’io. Verace un detto
Se avrò da te, se libero il tuo core
D'ogni menzogna farai tu col senno,
Ciò che a me chiedi, ti darò. Niegarti
Questa persona mia, quest’alma ancora,
Io non vorrò. — Molto è sapere in terra,
Quei diè risposta; ma disperso andava
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Fra questo e quello. Che se cosa è chiara
A me che cerchi, di risposta vuota
Non troverai la lingua mia. — Gli disse
Il prence: Re Khusrèv dove soggiorna
In queste parti?... Bada che parola
Scioglier tu déi con verità. — Rispose:
Nulla ne udii. Cotesto nome io stesso
Unqua non pronunciai. — Ratto che disse
Cotal risposta il condottier, di spada
Ghev diede un colpo e gli abbattò la testa.
Così ne venne ad ogni parte, quale
Un forsennato, per trovar del figlio
Di re sovrano alcun indizio. Volsero
Su ciò sett'anni, ed egli avea dal cinto
Di cuoio irsuto e dalla spada il fianco
Livido e attrito. Gli erano del campo
Cibo gli onàgri, e lor divelte spoglie
€ Vestimenta gli fornian. Cibavasi
D'erbe talor, talor bevea salmastre
Acque, e il deserto e le montagne tutte
Cercava intanto con dolor, con stento,
Da ogni vivente compagnia lontano.
IL Incontro di Ghév e di Khusrev.
(Ed. Calc. p. 512-516).
Nel tempo che traea di qua dal fiume
Rustem le genti sue rapidamente,
È il turanio signor, venuta ancora
nia in suo dominio, era disceso
In Gang munita, fe’ il gran re precetto
A Piran battaglier così dicendo:
Khusrèv, cagion di male, a questi lochi
Tu riconduci. Lo trarrai da quella
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Region di Macin, lo renderai
Alla sua madre, ma ogni via di scampo
Gli terrai chiusa. — E Piran all'istante
Al giovinetto re, sire del mondo,
Spediva un messaggier. Così ei condusse
Di Siyavish il figlio, ancor fanciullo,
Ma saggio e accorto e d'ogni spirto affranto
Consolator, poi l’affidò alla madre
In quel loco medesmo, e da quel giorno
Lunga stagione anche passò. Ma quando
Tristo e dolente pel turanio suolo
Ghev così s'aggirava ardimentoso,
Avvenne un dì che assorto in un pensiero
Giuns'ei vicino ad una selva, assai
A que’ tempi famosa. Il bosco ameno
Mesto ed afflitto ei penetrò. Dintorno
Lieta la terra, ma in perenne duolo
Era il core di Ghev. La terra verde,
Pieni d'acque i ruscelli egli ben vide,
Vide acconcio ai riposi e ai dolci sonni
Tutto quel loco. Giù balzò di sella,
E, sciolto il palafren, là s'adagiava
E pieno il core avea d'un gran pensiero.
Oh sil, molto ei pensò nel mesto core
E disse: Qui son io lungi rimasto
E di sonno e di cibo dal conforto.
Indizio di Khusrèv poi che non veggo
In questi lochi, perchè mai per aspri
Sentieri traggo il fianco mio? — Qui tacque
E aggiunse poi: Veracemente un tristo
Devo ne venne al padre mio nell'ora
Ch'ei vide il sogno, e certo unqua non nacque
Khusrèv dalla sua madre, o s’egli nacque,
Di vita il tolse avverso fato, ed io
Nel mio lungo cercar duolo ed angoscia
Ebbi soltanto. Chi moria bevendo
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— 17
Atro un velen, sia benedetto!... Intanto
Gli eguali miei discendono alla pugna,
Siedono a banchettar gli amici miei,
E quei cerca la gloria, e i giorni mena
Lieti costui. Del ciel che rota incurvo,
Mi diè il fato in poter, sì che vicino
L'alma a spirar son io com’uom da nulla
In questa terra. Già s'umilia e piega
L'anima oppressa come piega un arco.
Invan cercato il suo signor, la selva
Dilettosa ei correa, dolente il core,
Fin che da lungi un fonte che lucea,
Scoverse e presso al fonte un giovinetto,
Nato a donar la pace al cor, qual nobile
Cipresso alla statura. Un nappo in mano
Di vin reggea, sul capo una ghirlanda
Avea di fiori. Oh sì! nella persona
Gli eran palese maestà di Dio
E parvenza di saggio! E veramente
Detto avrestù che là sedeva in trono
D'avorio, con un serto di turchesi
In fronte, Siyavish. E da quel volto
Amor spirava e da’ capelli suoi”
Beltà di serto si formava. Allora
Ghev così disse in cor: Costui davvero
Altri non è che il prence mio. Quel volto
Di tal che siede in trono, è degno assai! —
A piedi intanto ei si accostava. Ratto
Che gli fu presso, cadde infranto il vincolo
Di sua doglia alla porta, e gli fu aperto
Un inclito tesor. Khusrèv che il vide
Dal chiaro fonte, sorridea; balzava
Giubilante quel cor. Questi è, non altri,
Ghev battaglier, pensò. Non v’ha gagliardo
In questa terra che somigli a lui.
Ei sì mi cerca; nell’irania terra
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Per ricondurmi e farmi re. — Vicino
Più e più si fea l’eroe famoso; allora
Si mosse re Khusrèv dal loco suo
E disse: O Ghev, tu ne venisti lieto,
Venisti a me qual opra di giustizia
Che s'accorda col senno. Oh! come mai
Fino a tal loco la dirotta via
Varcar potesti? Qual novella rechi
Di re Kàvus, di Tus, di Gùderz prode?
Lieti son tutti? e di Khusrèv nel core
Fanno ei ricordo? E quel di gloria amante,
Rùstera, eroe fortissimo, e con lui
Destàn che fa, che fa l’irania gente?
Attonito restò, come ciò intese,
E nel nome di Dio la lingua mosse
Ghev e disse al garzon: Ben io conosco
Che re Khusrèv sei tu, novello sire
In nostra terra. — O Ghev, dissegli il sire,
Khusrèv son io veracemente, al mondo
Son io l’annunzio d’un’età novella.
E Ghev soggiunse : Del tuo dolce amore
Necessità venne alla terra omai,
O illustre. Che tu sei l’inclito figlio
Di Siyavish, mi penso, e da regale
Stirpe disceso e di gran senno adorno.
E tu, famoso eroe, rispose il prence,
Di Guderz il figliuol sei veramente,
Ghev generoso. — E quei: Signor de’ giusti,
Chi mai di Gùderz ti parlò, chi mai
Di Ghev e di Keshvàd novella diede?
Esser felice con real grandezza
Possa tu ognor! — Khusréèv rispose: O forte
Pari a leon, la madre mia coteste
Cose mi disse del mio padre in nome.
Nel tempo che venian li suoi consigli
Al termine fatal, la sua parola
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— 19 —
Per gloria dell'Eterno egli disciolse
E così disse all’inclita mia madre:
« Qualunque sia la rapida sventura
Che incoglier mi dovrà, verrà pur sempre
Alla luce Khusrèv. D'ogni intricato
Nodo la chiave ei recherà. Nel tempo
Ch'ei si farà prode e valente, il saggio
Ghev d’Irania verrà per ricondurlo
D'Irania al trono, per menarlo agl’incliti
Di quella terra e a’ suoi gagliardi. Il mondo
Ei riporrà nella sua via diritta
Col suo valor; di me tradito l'alta
Vendetta ei compirà. » — Signor di forti,
Dissegli Ghev allor, qual certo rechi
Indizio tu di tua real grandezza?
Di Siyavish ben noto era ed aperto
Un segno, quale un neo di negra pece
Sovra le rose. Tu disciogli e mostra
IN braccio a me; ben chiaro e manifesto
Appo la gente è il segno tuo verace.
Ignudo il corpo suo mostrava allora
Il giovinetto re; vide il guerriero
Quel bruno segno, eredità dei tempi
Di re Kobàd, per cui si fea non dubbia
De' Kay la discendenza. Allor che il vide,
A} giovane signor prestava omaggio
Ghev, e dicendo il suo secreto, lagrime
Giù dagli occhi versava. Il re dell'ampia
Terra al petto il serrò, con molta gioia
Benedicendo a lui, d’Irania bella
E del trono regal sì l’inchiedendo,
Di Gùderz battaglier, di Rùstem prode,
Leale amico. E Ghev rispose: O prence
Che l’ampia terra signoreggi, vigile,
Da l'alta fronte e d’orme gloriose,
Pel tuo volto son lieti e giubilanti
<pb n="3.20"/>
— 20 —
Son tutti che tu chiedi; essi già posero
Amore in te, non anche visto. Iddio,
Conoscitor d'ogni opera leggiadra,
D'ogni opra trista, se a me dato avesse
Ad abitar de’ beati la sede
O a dominar le sette regioni
Di questa terra, dandomi grandezza
E corona di re, questo mio core
In sì grande allegrezza or non sarìa,
Or che il tuo aspetto nel turanio suolo
Giunsi a veder. Ma chi sa dir s'io vivo,
Là nell’Irania, o se dentro l’'avello
M'han posto o preda alle voraci fiamme
Gittato, o se potei vivo una volta
Siyavish qui veder, del suo dolore,
Della sua angoscia, inchiederlo pur anco?
Grazia è questa di Dio, chè amica sorte
All’aspro faticar meta propose
D’alta letizia e d’insperato gaudio!
Dalla foresta vennero ambedue
Nell’aperto sentier. Khusrèv chiedea
Di Kàvus re novelle e di que' sette
Anni di stenti e di dolor, dell’aspro
Giaciglio sotto al ciel, de’ brevi sonni,
Del cibo scarso. E Ghev narrava tutti
Al suo signor gl’intravvenuti casi,
Mossi da Dio, fattor del mondo; ancora
La vision di Gùderz gli narrava,
Il lungo faticar, lo scarso cibo
E il selvaggio vestir, l'ansia del core,
Il suo conforto e il suo riposo. Disse
Che tolta gli anni avean la maestade
A Kàvus regnator, che per la doglia
Del figlio ucciso egli divenne quale
Uom che forza non ha, che l'onor prisco
Era sparito dall'irania terra,
<pb n="3.21"/>
— 21 —
Che l'ampia terra in un deserto squallido
Si tramutava. All'angoscia de’ suoi
Arse il cor di Khusrèv, s'acceser ratto
Le gote sue come di fuoco. Ei disse:
Or però ti darà sorte propizia
Dopo il diuturno faticar conforto
E placidi riposi. A me tu sii
Qual padre intanto; l'alto mio secreto
Non disvelar, ma ciò che la fortuna
Prepara e mena, ad osservar ti poni.
Sul destriero di Ghev si assise il prence,
E Ghey s'incamminò dinanzi a lui
Con fermo core, stretto in pugno un ferro
D'indica tempra. Con quel ferro, il prode
Vigil di cor colpia senza ritegno
Di tal che innanzi gli venia, la testa,
Ne celava sotto il suol la spoglia,
Sotto la polve. Toccarono intanto
Siyavish-ghird; e poi che il senno e il core
Quivi si riavean dei due gagliardi,
Resa alleata Ferenghis, un’opra
Secreta ordîr, perchè n'andasser tosto
Per lor viaggio in tre, celati agli occhi
D’ogni possente di battaglie amante.
Ferenghìs disse allor: Se qui s'indugia,
Angusta farem noi quest'ampia terra
A noi medesmi. Re Afrasyàb novella
Ne avrà ben tosto, e tralasciando i suoi
Conviti e il sonno ripudiando, quale
Il Bianco Devo, qui verrà improvviso,
E il nostro cor per la vita gioconda
Ogni sua speme perderà. Ma vivo
Il turanio signor di noi nessuno
Lascierà in terra, non in parte ascosa,
Non in aperto loco. È di nemici,
È di malvagi pieno il mondo, e questa
<pb n="3.22"/>
Terra lontana d’Ahrimàn la sede
È veramente. Se quell’uom, cagione
D’alta sventura, ciò sapesse, incendio
Susciterebbe in ogni culto campo.
Ma tu che hai lode e maestà di prence,
Figlio diletto a me, perch'io ti doni
Un mio consiglio, porgi intento il core.
Di qui non lungi è un loco dilettoso
Che fiancheggia la via, dai cavalieri
Di Turania percorsa. In man la sella
Togli e le briglie che han la tinta fosca,
E va di gran mattino al dilettoso
Loco di qui. Monte vedrai che al cielo
Co' pinnacoli giunge e la cui cima
Radon le nubi. All’alto ascendi, e un loco
Ameno tu vedrai qual’è gioconda
Primavera quaggiù. V'è un ruscelletto
E v'ènno acque scorrenti, e a quella vista
L'alma si rinnovella. E quando il sole
Il vertice del ciel tocca da presso,
Nell'ora che al dormir volge talento
Di forti un duce, quante di puledri
Son mandre a pascolar sciolte in quel loco,
Scendon correndo al limpido ruscello
Per beveraggio. Mostrerai tu allora
E le briglie e la sella al palafreno
Del padre tuo, Bihzàd. A lui t’accosta,
Quand'egli corre a te vicino; a lui
Muovi dinanzi e la tua fronte mostra
D’un tratto; il chiama a te l’accarezzando
Con la tua man, con molto amor. La speme
Quando smarrì per questa terra infida
Siyavish mio, quando per lui la chiara
Luce del dì s'intenebrò, con questi
Detti ei si volse al bruno suo destriero,
A Bihzàd: « Obbedir d'oggi in avanti,
<pb n="3.23"/>
Fosse pur anco aquilonar bufera,
A vivente non déi. Resta qui al monte,
A questi paschi dilettosi, e allora
Che re Khusrèv te qui verrà cercando,
Tu destriero gli sii, le vie del mondo
Tu calca, e sgombra con la tua sonante
Unghia la terra da ogni reo nemico ».
III. Il destriero di SiyAvish.
(Ed. Calc. p. 516-518). .
A cavallo salia quel re gagliardo,
E Ghev a piedi il precedea. Si volsero
Da quella parte dell'aereo monte,
Come l'uom che sen va cercando aita.
Sceser le mandre nell’angusta valle
E bevvero a quel rio; tornaron poi
Abbeverate. Re Khusrèv si mosse
Rapidamente allor. Quand’egli giunse
Vicino al fonte, veder fe’ le briglie
E la sella a Bihzàd, perchè compiuta
In ciò fosse la voglia. Oh! levò il guardo
Bihzàd e il prence rimirò! Dal petto
Trasse un sospiro, e tosto ch'ei vedea
Quella spoglia di pardo in che seduto
Si tenne Siyavish, e le sue lunghe
Staffe e la sella di compatto legno,
Fermò sul margo de la fonte il piede
Nè si scostò dal loco suo. Tranquillo
Poi che il vide Khusrèv, ratto si mosse
E con la sella si affrettò. Si tenne
Il nobile destriero al loco suo,
Bruno qual notte, e fe’ degli occhi suoi
Due fonti vive. Pianse il giovinetto
<pb n="3.24"/>
— 24 —
Sire con Ghev; ardeano in cor per doglia
Qual su rapido fuoco. E giù dagli occhi
Ambo versàr lagrime ardenti e piena
D'imprecanti parole ebber la lingua
Contro Afrasyàb. Gli occhi vivaci allora
Palpò Khusrèv del nobile destriero
Con la destra e toccolli con la fronte,
Il pelo ne lisciò, l'ardua cervice
Ne accarezzò, l'irsuto petto. Quelle
Briglie allor gli apprestò, posegli al dorso
La sella, il padre suo rammemorando
Con intenso dolor. Quand'egli asceso
Fu in arcion, quando strinse ambe le cosce,
Balzò dal loco suo quel palafreno
Forte e gagliardo. Come impetuoso
Spiro di vento si spiccò, wolando
Via da quel loco, scomparendo agli occhi
Attoniti di Ghev. Rimase il forte
Dolente in cor, meravigliando, e in quello
Stupor suo grave dell’Eterno il santo
Nome invocò. Deh! sì, che in palafreno,
Disse, Ahrimàne ingannator mutavasi
E qui a noi si mostrò. Perdesi l’alma
Di Khusrèv, e ne va la mia fatica
Al vento. Oimè! che solo mio retaggio
È il faticar per la terrena via!
Quando così della montagna il sire
Ebbe corsa metà, lente d’un tratto
Fe' le fosche sue briglie e là rimase
Fin che il raggiunse Ghev. Dissegli allora
Quei, di vigile cor, prence gagliardo:
Forse avverrà ch'io manifesto renda
Con lieto core dell'eroe valente
Il pensier. — Disse Ghev: Deh! signor mio,
Che alta rechi la fronte, ogni secreto
Ben si convien che manifesto sia
<pb n="3.25"/>
— 25 —
Alla tua mente. Ben puoi tu, con tale
Divina maestà, con tal grandezza
Dei re sovrani, penetrar col guardo
Un crin sottile e ciò ch'è in esso ancora,
Chiaramente veder. — Per questo mio
Nobile palafren, Khusrèv gli disse,
Tale un pensier ti venne in cor. Pensasti,
Eroe, così: « Sorvenne al giovinetto
Ahrimàne improvviso, e quei partia,
La mia fatica disperdendo. Intanto
Piena ho l'alma di duol, ne fan letizia
I Devi. Oimè! che di sett’anni al vento
Andò il lungo dolor! Vergogna è questa
Che tocca il nascer mio ». — Giù si gittava
Dal suo destrier quel di gran cose esperto
Ghev animoso; ei benedisse al prence
Inclito e forte: Oh! benedetti i giorni
Del viver tuo! beate le tue notti!
De’ tuoi nemici sia divelto il core
Dal petto! Oh! sì davver! che di regnante
Hai maestà, grandezza, onor, possanza,
E con l'indole tua Dio ti diè pregio!
Dalla montagna al solitario ostello
Ei fean ritorno. Piena avean la mente
Di pensier gravi, e l’anima il sentiero
Del viaggio cercava. Allor che giunsero
A Ferenghis, molte parole corsero
Su la remota via, perchè celata
Fosse ad ognun lor difficile impresa,
E niun di loro intenzion ben ferma
Consapevol si fosse. Allor che vide
Ferenghis di Bihzàd il noto aspetto,
Ambe le gote sue sotto a le lagrime
Si velaron degli occhi. Ella accostava
A quel petto le gote, alla cervice
Del nobile destrier, l'alma invocando
<pb n="3.26"/>
Di Siyavish tradito. Allor che il pianto
Cessò dagli occhi suoi, velocemente
Corse a’ tesori d’ogni ben ricolmi,
Chè là nell’ermo ostello alto riposto
Un tesoro ell’avea, di cui nessuno
Avea notizia de’ mortali in terra.
Traboccava di fulgide monete
Il tesor; v'eran gemme e preziosi
Rubini assai, clave pesanti e ricche
Gualdrappe ed ascie, ferri acuti e spade,
Monete assai, gemme reali e fulgidi
Rubini e un diadema aspro di gemme.
Poi ch'’ella aperse al figlio suo dinanzi
L'ampio tesoro, e lagrimose avea
Le gote e di gran doglia il cor trafitto,
A Ghev così parlò: Tu che sì grave
Sopportasti fatica, or vedi in questo
Tesor qual brami tu gemma lucente.
Custodi ne siam noi, ma tuo soltanto
È il tesoro. E qui sta del viver nostro
In riscatto, e qui sta del tuo travaglio
In ricompensa. — Baciò innanzi a lei
La terra il prode e così disse: O donna
D'ogni donna regal, per te soltanto
Si fa la terra quale un paradiso
A primavera, e questo ciel la rea
Sorte e l'amica per te sola adduce.
Possa dinanzi al figlio tuo bennato
Servir la terra, de’ nemici tuoi
Caggia divelto al suol l’altero capo!
Poi che di Ghev su le ricchezze accolte
Cadder gli sguardi, la corazza ei scelse
Di Siyavish gagliardo. E molte gemme
Tolsero, quali di valor più grande
Ivi scoprir, quante portar fu dato
E sostener, celate e preziose